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martedì 25 gennaio 2011

Viaggi di sola andata, ma non sempre


di Bruna Larosa

I ricordi che scorrono con lucidità, mentre con gli occhi bassi sui fogli dà sfogo alla passione per la scrittura, maturata da qualche anno. Paolo Ferri è il tipico italiano medio, classe 1923, col viso rugoso e le mani lente ma precise. Lui è stato uno dei giovani chiamati a svolgere il servizio militare in quel particolare momento storico in cui l’esercito tedesco da alleato è diventato repentinamente il nemico da combattere. Catturato nei pressi di Firenze viene caricato con altri commilitoni su un treno carico di persone, comincia così il suo lungo viaggio verso Burghausen, dove trascorrerà lunghi mesi di prigionia. Il campo di concentramento sorgeva ai piedi di una collina che declinava dolcemente verso un lago, oggi è una tranquilla cittadina che ha voluto cancellare il suo passato storico anche distruggendo la struttura del lager. Eppure chi ci ha vissuto non conserva ricordi che il tempo potrà sbiadire, ricordi che si colorano delle grida di paura e di dolore rinverdendo la pesantezza di un’esperienza che segna per sempre.


Il profondo turbamento non traspare mentre la voce cadenzata e tranquilla del sig. Ferri riempie l’aria di scene difficili da immaginare altrimenti. Racconta come se vivesse dei flash il viaggio e poi la permanenza “In treno qualcuno aveva sollevato alcune delle assi di legno che componevano il pavimento del vagone, ci si lasciava scivolare di notte tra un binario e l’altro lungo la strada ferrata per tentare la fuga nonostante le sentinelle di coda al treno crivellassero di colpi il terreno al minimo dubbio”. Su quel treno non c’erano le panche e neppure i servizi igienici, c’era chi piangeva e chi pregava, mentre i vagoni, maschili e femminili ad ogni stazione diventavano sempre più affollati. Non è certo inutile sottolineare che per molti quello è stato un viaggio di sola andata.


“Dopo giorni di viaggio arrivammo ad una stazione dove avvenne la prima selezione: le donne e gli uomini troppo provati o malaticci e i bambini vennero portati via. Lì rimanemmo relativamente pochi e soprattutto uomini, quasi tutti italiani anche se di religioni e di provenienza diversa. Io venni destinato alla lavorazione di metalli pesanti in una fabbrica che sorgeva lì. Parlavano in tedesco, non si preoccupavano che noi capissimo, avevano facce tirate e severe e noi eravamo semplicemente stranieri, tristi e… schiavi. Quando aprivo gli occhi la mattina sentivo dolori da per tutto e giorno dopo giorno andava sempre peggio”. “Arrivò il momento in cui non ce la facevo più a portare avanti quel tipo di lavorazione, probabilmente se ne accorsero, ma prima di portarmi via, chissà dove, cercarono altri modi per sfruttarmi al massimo”. Venne portato insieme ad altri in una località verdeggiante dove venne di nuovo messo in fila “I proprietari delle terre e delle fattorie dislocate tra le vallate ci aspettavano, avrebbero scelto tra noi chi avrebbe lavorato i loro campi. Io sono stato scelto come contadino e fattore per la fattoria di una famiglia benestante”.


Pulsante è il ricordo della fame, che in un contesto simile non è più una ‘semplice’ sensazione, qualcosa che rimane confinato al corpo, la fame lì diventa un sentimento, un pensiero fisso. “Mangiavamo bucce di patate e pane, una quantità minima che non ci sfamava e ci permetteva solo di trascinarci da un giorno all’altro, mentre i nostri ‘padroni’ gettavano grandi quantità di avanzi e non pensavano di destinare qualcosa a noi. Dovevamo lavorare duramente comunque, anche quando eravamo malati, quando lo sconforto ci attraversava il cuore e se qualcuno non ce la faceva veniva portato via”. In questa condizione di schiavitù il signor Ferri ha trascorso due anni. “Quando è arrivato il momento di tornar a casa non riuscivo a crederci. Durante il periodo di schiavitù ho pensato tante volte all’Italia, al paradosso del passare da cittadino a schiavo. Ho pensato mille volte ai volti dei miei cari, alla mia casetta e anche alla guerra, che non dovrebbe esistere. Ho pensato tante cose, tutto ed il contrario di tutto in quei lunghi mesi di dolore, ho pensato che non sarei più tornato”.


Invece il sig. Ferri è tornato, egli è uno dei sopravvissuti ad un lager nazista. In Italia si è ricostruito una vita, sposando una donna tenace, Maria, ma non ha mai dimenticato i lunghi mesi di dolore, lo sconforto e la frustrazione. Il male della guerra alcuni uomini tentano di custodirlo nel cuore perché non debba ferire altri, finché la consapevolezza che il sonno della ragione genera mostri fa capire che il non parlare non fa cicatrizzare il male, bensì crea, momento dopo momento, una nuova ferita. Ad 87 anni, il sig. Ferri è l’ultimo rimasto tra i commilitoni che vennero catturati a Firenze in quel mai troppo lontano conflitto mondiale ed è lo stesso uomo che oggi si emoziona ancora per quelle piccole cose preziose che nella mancanza dimostrano la loro straordinarietà.






Pubblicato sul numero di Mezzoeuro n.3 in edicola dal 22 gennaio 2011

lunedì 24 gennaio 2011

Mondino, maestro di fantasmagorie

di Bruna Larosa


Il Museo di Arte Contemporanea di Acri, una realtà culturale riconosciuta a livello nazionale, presenta la mostra ‘Aldo Mondino. Maestro di fantasmagorie’, per celebrare ancora una volta e attraverso i lavori di un grande artista il profondo valore dell’arte. Costituisce una sfida importante portare l'arte contemporanea in una realtà come quella calabrese, una sfida accolta e accettata dalle istituzioni locali consapevoli dei pregiudizi e dello scetticismo che ciò porta con sé.


L’entusiasmo è ancora maggiore quando si ha la possibilità di far conoscere un artista come il poliedrico Mondino, mai parco nella creatività, carico di un’esuberanza artistica positiva e ricercata. La mostra, dedicata a lui soltanto, è per ricordare attraverso la sua stessa arte il maestro torinese, scomparso nel 2005. L’artista in questione è uno dei rappresentanti della stagione di fermento culturale che ha caratterizzato gli anni Sessanta del capoluogo piemontese.


Lo stile originale di Mondino ripercorre e ripropone le sue esperienze intellettuali insaporendole della sottile, ma elegante sagacia con cui guardava il mondo. Una vita vissuta tra l’Italia e la Francia dove si reca ancora ragazzo e dove ha la possibilità di seguire i corsi del maestro William Hayter e dove frequenta l’Ecole du Louvre; nello stesso tempo stringe dei legami importanti con artisti del periodo quali Sebastian Matta e Wilfredo Lam. Bisogna riconoscere all’artista la capacità di riversare nel suo lavoro ogni vicissitudine astraendola dal contesto originario, metabolizzandola e adattandola allo studio manipolatorio della materia.


A beneficio del pubblico il titolo fortemente evocativo della mostra parla di ‘fantasmagorie’ lo stesso termine con cui in tempi recenti si sono identificate le prime creazioni cinematografiche che coinvolgevano diversi aspetti dell’arte quali le immagini e la musica. Un titolo che è già una presentazione poiché gli organizzatori lo ricollegano all’eco dei celebri versi del francese Arthur Rimbaud che con prontezza affermava ‘di aver tutti i talenti’ tra le prime righe dell’opera ‘Una stagione all’inferno’. Per evidenziare le diverse capacità di Mondino potrebbe essere sufficiente ricordare quelle sue opere costruite con confezioni di torrone, selle di cavallo o aringhe affumicate a testimonianza di una vicinanza alla realtà quotidiana non sempre comune tra gli artisti. Un’attenzione per il reale che proviene anche dalla frequentazione del maestro con un gruppo di poveristi, artisti che incentrano la loro attenzione su cose estremamente semplici, alle basi di quel linguaggio più complesso che si riflette spesso nell’arte.


Sempre a tali influssi si possono legare delle altre opere, quali le sculture in cioccolato e zucchero di canna. Il fluire costante di idee diverse si è trasformato in un insieme di ispirazioni sempre nuove che l’artista ha avuto la capacità di elaborare in maniera sempre nuova e originale. Così ogni esperienza di studio e di vita si trasforma in una nuova prospettiva, in una innovativa scoperta che viene applicata con sapienza e determinazione all’arte. Solo per citare alcuni tra i Maestri con cui il nostro ebbe a che fare ricordiamo, oltre l’espressionista William Hyter, il futurista Gino Severini, famoso per essere riuscito a fondere insieme fattibilità e creatività. Questi e anche altri artisti ebbero una profonda influenza sulla formazione del genio di Mondino.


La variegata vita del maestro torinese attraversa diversi periodi; una fase citazionista dai forti richiami pop e un successivo ciclo orientalista, sviluppatosi negli anni Settanta con la serie King, proseguito con quella dei Dervisci e con sperimentazioni solenni, eccentriche e coraggiose. È impossibile rappresentare lo spirito di un artista, ma il MACA ci prova proponendo venti opere diverse, scelte tra sculture di grandi dimensioni, dipinti e una serie di gioielli per offrire al pubblico la possibilità di sfiorare il carattere esotico e variegato del ‘creatore di fantasmagorie’.



Pubblicato su Mezzoeuro in edicola dal 15/01/2011

mercoledì 19 gennaio 2011

C'è chi a Rosarno cerca un futuro migliore (Bruna Larosa)


La Calabria è una regione di frontiera che ben conosce il dolore delle partenze vivendo continuamente sulla sua pelle il sapore degli addii. Conosce anche il fantasma degli arrivi, quelli dei barconi della speranza che si adagiano sulle sue coste con il loro disperato carico di vite umane. Arrivi, questi, che vengono vissuti con amarezza e insofferenza perché, complice la perenne colpevolizzazione mediatica, molti conterranei sono convinti che gli emigranti non possano essere un’opportunità, bensì un nuovo motivo di beffa e denigrazione.
Più volte nei paesi del reggino si incrociano gli stranieri, per lo più africani, rumeni, curdi e di altre etnie. Parlando con loro non solo si scopre che molti sono laureati o professionisti, ma si viene a conoscenza di culture tanto diverse quanto affascinanti e degne, al pari di tutte le altre, di essere rispettate e apprezzate. I disordini che hanno caratterizzato i giorni del rovente gennaio di Rosarno non vengono dal nulla. La rabbia repressa ha semplicemente fatto il suo corso e data la frustrazione non è implosa ma esplosa in maniera inesorabile. Nonostante l’emigrazione appartenga alla storia del Sud, oggi, possiamo realmente capire cosa significhi emigrare? Possiamo avere idea del sapore che si prova quando si lascia la propria terra, si attraversa il deserto, ci si imbarca su navi che nulla hanno di solido se non la disperazione? Tutto per un sogno: la speranza di realizzare un futuro migliore per sé e per la propria famiglia. Una speranza che si alimenta mentre si mettono insieme i soldi per partire e prosegue fino al momento di solcare il mare.

Abbiamo parlato di questo con Andrea Scarfò, che sta presentando in giro per l’Italia la sua mostra fotografica, Magna Italia, realizzata all’indomani dei disordini avvenuti nel paese della Piana di Gioia Tauro. Alcuni dei suoi scatti sono stati inseriti nell’archivio di rinomate agenzie di stampa nazionali, mentre altre gli sono valse una menzione speciale al concorso internazionale "From A to B" bandito da Euroalter in collaborazione con Youthmedia.




Andrea, il suo è un reportage dal profondo valore sociologico e non solo; realizzarlo l’ha portata a incontrarsi con una realtà molto dura. Qual è il clima che ha respirato a Rosarno e che ha voluto immortalare nelle sue foto?

Il cardine di un lavoro a carattere giornalistico è la capacità di astrarsi dal proprio modo di vedere le cose così da restituire una visione il più possibile vicina alla realtà. Proprio in quest’ottica ho provato a ritrarre la realtà di Rosarno. Alcune foto, ad esempio, illustrano scorci del centro abitato che è un po' simbolo della ‘incompiuta calabrese’; dico così perché i tratti sono quelli comuni a tantissime località: i palazzoni di più piani che si articolano in altezza senza rifiniture esterne, ne sono un esempio lampante! La mostra è stata ospitata nella Biblioteca Civica di Taurianova, ho accolto diverse scolaresche; ho così avuto modo di chiedere ai tanti bambini come pensano si possa crescere in un ambiente siffatto e loro rispondendomi ‘disordinato dentro’, hanno detto tutto.




Magna Italia è stata ospitata in molte regioni. Come è stata accolta in Calabria e che reazioni è riuscita a suscitare in contesti diversi dal nostro?

La mostra è stata presentata in contesti molto differenti tra loro: da nord a sud, in contesti sociali e in altri culturali. Nessuno è rimasto indifferente! A Taurianova, paese nel cuore della piana di Gioia Tauro, le signore dell'università della Terza Età mi hanno detto: ‘Anche noi quando raccoglievamo
arance mangiavamo solo quello!’ Questo è il motivo per cui la gente semplice non è avversa ai lavoratori africani: si riconosce in loro e nelle loro fatiche. A Mantova, invece, mi è stato chiesto ‘Noi che cosa possiamo fare?’. Io rispondo che bisogna tenersi in contatto per creare una rete di solidarietà non solo a parole ma anche nei fatti; è per questo che con l'Osservatorio Migranti di Rosarno andiamo in giro per l'Italia a chiedere aiuto.




Per realizzare questo reportage lei si è recato nei luoghi adibiti a ricovero per i lavoratori stagionali quando loro, ormai, avevano deciso di lasciare Rosarno. Che esperienza è stata?

Quando ho finito ho pianto. Con le foto, a mente fredda, provo a raccontare che gli africani fin quando lavoravano e avevano quindi una retribuzione riuscivano a cucinare, nonostante ciò il freddo e l'umidità li faceva ammalare in modo cronico! Altro tema che affronto, raccontando i posti dove vivevano, è la mancanza di assistenza, solidarietà e vicinanza da parte dell'Italia delle Istituzioni. Pensiamo che gli africani non avevano corrente elettrica o acqua corrente potabile o impianto fognario, tutto ciò porta alla mancanza assoluta di igiene!





Essendo lei una persona impegnata e creativa si è mai domandata cosa avrebbe potuto migliorare la situazione e quali misure sarebbe stato opportuno mettere in pratica?

Considerato che tutto si è scatenato per via della schiettezza degli africani, che hanno deciso di non sottostare alle angherie di chi pretende di controllare il territorio e per questo hanno avuto ascolto e considerazione; credo che sia necessaria la solidarietà della gente comune. Proporrei, poi, con ancora più forza di rispettare e far rispettare le leggi. Ad esempio stabilire un prezzo degli agrumi al produttore più equo, dare lavoro facendo contratti regolari e fornendo, come prescritto dalla legge per i lavoratori stagionali, un reale alloggio per gli stessi. Non sono idee innovative, è semplicemente la constatazione di ciò che sarebbe giusto si facesse. Prospetterei, poi, che tutti i calabresi che ricevono contributi per lavoro bracciantile fittizio vi rinuncino. Non solo! Sarebbe anche opportuno che i sindacati si autodenunciassero come colpevoli di questo meccanismo. Sappiamo benissimo che da queste parti la ‘ndrangheta è la regista di ogni cosa, così, solo proponendo la giustizia e la legalità possiamo considerarci fattivamente impegnati a combatterla.






Pubblicato sul numero 44 di MezzoEuro in edicola dal 6 novembre 2010

martedì 18 gennaio 2011

Argan l'olio dalle proprietà miracolose

di Bruna Larosa


E' stato un Seminario dal titolo “Valorisation of Argan oil for a Sustainable Development of Argan Forest” a svegliare l'interesse e attirare l’attenzione sulla ricerca e sul lavoro della professoressa Zoubida Charrouf.


L’Argan è una pianta che produce dei frutti simili alle olive, da cui si estrae un olio molto raro e prezioso per le sue capacità cosmetiche e mediche. È la professoressa Charrouf da giovane dottoranda a scoprire le proprietà dei semi dell’Argan e ad avere l’idea di creare una cooperativa per la lavorazione dei semi di Argan.

Abbiamo avuto la possibilità di incontrare la professoressa Charrouf che ci ha spiegato e raccontato come tutto ha avuto inizio e quali sono le caratteristiche di questa pianta prodigiosa.



L’habitat naturale dell’Argan è il Marocco sud-occidentale ed è qui che è stata messa in atto l’idea della professoressa. A distanza di 13 anni dalla prima cooperativa (nata nel 1996) se ne contano oggi ben 130 che occupano moltissima parte della popolazione femminile della zona.


L’olio di Argan è anche definito ‘Oro del Marocco’ e oltre ad essere usato a scopi culinari, ha delle proprietà emollienti ed un’azione rigenerante per la pelle. L’olio si presenta dorato e denso, con un aroma tostato e le sue caratteristiche cosmetiche e mediche rendono tale prodotto appetibile dalle case cosmetiche e non. Ciò che stupisce non è tanto il risultato della ricerca in sé, quanto l’organizzazione che si è riusciti a creare intorno alla produzione di quest’olio. La zona geografica in cui tutto ciò si realizza è poverissima, lontana dalle città e prossima alla desertificazione. La creazione della cooperativa ha portato a nuove piantagioni di Argan che, con le loro radici di 30 metri sono riuscite ad arrestare l’avanzata del Sahara. Per 400.000 donne (la cooperativa è rosa) questa realtà non solo rappresenta una prospettiva lavorativa ed un sostegno per le famiglie, quindi la possibilità di un’istruzione per i figli, ma anche un momento di socializzazione ed apprendimento. Lavorare in una cooperativa, infatti, significa essere parte integrante di un tessuto che valorizza i produttori facendoli crescere dal punto di vista sociale e culturale.


Un’operazione culturale, sociologica ed economica, una ‘magia’ che è stata possibile in Marocco ma che, in Italia, e specialmente al Sud, carichi come siamo di aspettative non riusciamo a far maturare. Il trasferimento tecnologico, la ricreazione di piantagioni, la capacità di creare un mercato hanno identificato una nuova concezione del lavoro capace di andare al di là dell’interesse e di segnare cambiamenti socio culturali profondi ed importanti.
Ora come ora la produzione di olio di Argan deve essere tutelata attraverso la certificazione scientifica, da quando il prezzo del prodotto è passato da due a trenta euro a litro è necessario arginare la ‘pirateria’ che può toccare questo campo. Ad oggi note industrie italiane sono interessate al prodotto, tanto che ci potrebbero essere opportunità di lavoro dal Marocco anche qui in Italia.



Pubblicato su Fatti al Cubo, n.10

domenica 16 gennaio 2011

Cucire il proprio futuro

di Bruna Larosa


Si toccano con mano i propri sogni quando con passione e dedizione ci si dedica ad un’arte particolare: inventare e creare abiti. Come in un comune progetto si mette prima su carta il modello dei propri sogni, linee sottili, via via più sicure, poi lo si trasforma in un vero abito con eleganza e maestria. E’ da un’idea creativa e pulsante che nasce un abito, prima nella mente dello stilista, poi dalla sua matita e, infine, dalla carta alla stoffa! Inseguendo il desiderio di realizzare un proprio brand la figura dello stilista equivale a quella dell’artista, poiché questi come ogni esteta si prodiga a realizzare ciò che immagina. Quando dal gusto dell’ideatore vien fuori un modello apprezzato e richiesto anche da altri c’è la possibilità di fare la differenza e di schiudere le porte del mondo della moda.

Parlare con una persona che vive queste emozioni fa emergere tutta l’attenzione verso i piccoli particolari, che sono poi i segni distintivi del talento; mentre la stoffa scivola tra le dita in un clima in cui si respira il fervore di chi crea e ama creare. È questo il mondo che ci ha svelato Rosita Trifilio, ragazza semplice dal sorriso pulito che frequenta l’accademia New Style di Cosenza e con impegno e abnegazione coltiva il sogno di diventare una stilista di fama.


Come è nata la sua passione per la moda?
Non c’è stato un momento preciso, ho sempre avuto una grande passione per il disegno; sin dalle scuole elementari disegnavo vestiti, sognando sfarzosi ed elegantissimi abiti da sposa e da cerimonia. Da sempre ho visto nei semplici e ingenui scarabocchi che tracciavo abiti veri, che avrei potuto realizzare nel mio futuro. Un aneddoto di famiglia vuole che io abbia questa passione poiché sarei il risultato di due lavori fusi perfettamente insieme, quello di mio padre, imbianchino e di mia madre, sarta: cosa poteva venir fuori se non una persona con tanta creatività? In realtà fino a tre anni fa disegnavo solo per passione, ho frequentato un istituto tecnico commerciale vicino al mio paese, ma una volta finita la scuola ho deciso di riprendere il mio sogno.



C’è qualche aneddoto in particolare che le ha aperto questa strada?
Effettivamente c’è un episodio particolare in cui ricordo di aver sentito dentro di me la volontà di diventare una stilista. Quand’ero piccola mia madre cuciva abiti per me e mia sorella in occasione di qualche festa di compleanno o di qualche matrimonio; ricordo in particolare un vestitino di velluto a coste blu scuro: non dimenticherò mai quel giorno! La premura di mia madre verso i dettagli perché calzasse al meglio e il taglio ricercato mi aprirono un mondo! In quell’occasione ho iniziato a pensare di diventare una stilista e creare abiti da poter vendere nei negozi.


Che tipo di studi sta seguendo per cercare di diventare una stilista?
Sto frequentando l’accademia di moda grazie alla quale sto acquisendo molte conoscenze storiche, pratiche e teoriche che mi stanno aiutando a crescere in questo ambito. Questo tipo di studi sono volti ad offrire attenzione ad ogni allievo perché ciascuno di noi deve riuscire ad affinare le proprie capacità. Proprio in questa ottica ho avuto la possibilità di partecipare a molti concorsi, che ci danno modo di conoscere i vari settori della moda prendendone visione personalmente. Proprio così si ottiene un bagaglio formativo e culturale ricco e adeguato per ogni occasione.



Oltre a ciò che si può apprendere da altri c’è qualcosa di più?
Ci sono molte cose che nessuno ti insegna e se non le hai nel cuore e nella mente non puoi fare questo lavoro. A mio avviso tra queste ci sono dei requisiti essenziali quali la creatività, la conoscenza del settore, un bagaglio culturale non indifferente, fantasia e passione.


Allora cosa significa essere una stilista?
Stilista è una parola piccola che racchiude in sé un mondo vasto e unico. In essa si ritrova la capacità di saper disegnare e anche la cultura, la creatività, le esperienze che ogni persona che vuole intraprendere questa strada cerca di trattenere in sé per trasformarle in creazioni.


Cosa si aspetta per il tuo futuro lavorativo?
Per il mio futuro mi auguro di iniziare a lavorare come stilista per qualche azienda del settore che riconosca la mia passione nel disegnare abiti. Se ciò non dovesse accadere comunque non mi arrenderei e cercherei di realizzare un mio marchio personale, così da aprire una serie di negozi con i miei abiti e dimostrare le mie capacità alle varie aziende del settore.




Pubblicato su Mezzoeuro in edicola dal 10/01/2011

sabato 15 gennaio 2011

Il mio part-time all'Unical

di Bruna Larosa


Sono moltissimi gli studenti, principalmente fuori sede, che per aiutare la famiglia a far fronte alle spese universitarie accostano allo studio delle attività lavorative. Gli Atenei sono coscienti di ciò tanto da prevedere dei bandi specifici in cui si offrono dei contratti part-time relativi a mansioni da svolgere all’interno dell’università stessa. La vita universitaria, così, oltre a presentare molteplici possibilità di crescita e socializzazione offre anche la possibilità di misurarsi in attività da svolgere parallelamente allo studio. Le attività degli studenti sono organizzate e pensate per favorire un’esperienza costruttiva; ad oggi i part-time si occupano anche di gestire il rapporto con altri studenti, in primo luogo matricole, aiutando l’Università stessa ad abbattere quelle forme di timidezza o di difficoltà relazionale che possono insorgere all’inizio della vita accademica.

Proprio in questa prospettiva il lavoro degli studenti part-time è stato anche richiesto per i ‘corsi di azzeramento delle competenze’ svoltisi negli scorsi anni a favore dei neo iscritti. Proprio in tale contesto, nella veste di tutor ha operato Paola Pizzonia, una studentessa di Vibo Valentia, che ci ha raccontato la sua esperienza di ‘ragazza part-time’presso la Facoltà di Farmacia dell’Unical.


Quando ha svolto il suo periodo di part-time e quale ruolo ha ricoperto?
Ho iniziato il mio periodo di part-time nel 2008 presso la Facoltà di Farmacia, io frequentavo la specialistica e ormai ero al primo anno fuori corso. Il mio compito, come anche per gli altri tutor, era quello di supportare le attività legate al normale svolgimento dei corsi di azzeramento erogati a favore delle matricole.


Cosa si aspettava da questa esperienza?
La realtà mi ha stupita e conquistata: ho trovato un ambiente piacevole e propositivo. Prima di iniziare il lavoro ero molto preoccupata principalmente per il carattere sperimentale del progetto di tutoraggio in cui ero rientrata. Il 2008, infatti, è stato il primo anno che l’Università della Calabria ha offerto dei posti di lavoro part-time in quella posizione.


Come ha affrontato questo periodo e le incertezze dovute alla novità del ruolo?
Scherzando con i colleghi ci definivamo delle cavie, poiché si stava sperimentando su di noi se l’idea di porre degli studenti come tutor fosse buona o meno. Nonostante la sensazione di far parte di un esperimento però, è stata un’esperienza formativa, professionalizzante che ci ha arricchito molto. Sia io che i ragazzi coinvolti nel progetto siamo molto cresciuti sotto diversi punti di vista.


Spesso i ragazzi preferiscono non presentare la domanda poiché temono di ‘perdere’ del tempo utile da dedicare allo studio, lei cosa ne pensa?
In realtà anche io, come tutti, mi sono posta questo stesso interrogativo: riuscirò a conciliare lavoro e studio? Poi mi son resa conto che in tutta la mia esperienza universitaria non avevo mai studiato 24 ore su 24, anzi, il più delle volte le ore di studio vero e proprio erano state davvero poche. Consapevole di ciò ho deciso di lanciarmi nell’avventura del part-time, non senza qualche preoccupazione per le responsabilità che mi sarei dovuta assumere.


A proposito delle responsabilità, hanno appesantito il suo modo di vivere l’università?
Paradossalmente le responsabilità di quel lavoro mi hanno maturata e non le ho vissute come un peso; si sono rivelate addirittura uno stimolo a studiare di più in quel periodo!


Che tipo di rapporto si è instaurato con gli altri ragazzi impegnati nella tua stessa attività, li senti ancora?
Mi son trovata in una squadra con altri studenti, molti dei quali più giovani di me d’età ciò, però, non mi ha impedito di stringere delle belle amicizie e di trovarmi in forte sintonia con alcune di queste persone. Anche il rapporto con i supervisors-tutors si è fatto così stretto che gli stessi hanno organizzato una serata per ritrovarci e trascorrere un po’ di tempo insieme. Ad oggi sono rimasta in ottimi rapporti con le persone con cui avevo legato tanto che non perdiamo occasione di sentirci e ricordare la bella esperienza. Con alcuni addirittura ci siamo ritrovati dopo un bel po’ di tempo che era finito il part-time e non avevamo avuto più modo di sentirci. Un’esperienza di lavoro positiva riesce a far creare un legame molto stretto tra colleghi, un legame che diversamente non ci sarebbe.


Consiglierebbe questa esperienza ad altri?
Certamente: assumersi qualche responsabilità fa sempre bene. Non trascuro certo, di sottolineare il valore umano che io stessa ho riscontrato in questa esperienza e che ritengo sia l’aspetto più bello e profondo, al di là di quello puramente professionalizzante. Anzi se dovessi presentare a qualcuno il part-time inizierei proprio a parlare dei potenziali rapporti umani che porta con sé il lavoro di squadra e che, dal mio punto di vista, costituisce senza dubbio uno dei principali punti di forza del part-time universitario.







Pubblicato sul n. 2 di Mezzoeuro in edicola da sabato 15 gennaio.

giovedì 13 gennaio 2011

Possenti tracce di fierezza brettia

di Bruna Larosa


Il vento accarezza il pendio profumato di erbe mentre gli insetti sembrano rincorrersi nel loro operoso volare, qui la collina, lì il mare. I nostri occhi oggi possono osservare con curiosa attenzione questo scenario che sembra perdersi nel tempo, ma questo stesso spicchio di mondo è stato osservato con fredda tensione da occhi di guardie il cui unico compito non era certo quello di godere delle bellezze di questo posto, ma di verificare che non giungessero attacchi o pericoli di qualche sorta da lontano. Ci troviamo a Castiglione di Paludi, in provincia di Cosenza, dove è stata rinvenuta l’unica cittadella fortificata del territorio calabrese e qui sembra di poter respirare la stessa brezza che avvolge Rodi, Creta e le Isole dell’Egeo, e, infatti, la posizione, rialzata rispetto al mare, richiama le classiche acropoli greche.

Gli scavi, iniziati, ripresi, interrotti più volte e non ancora terminati, hanno portato alla luce degli interessantissimi resti che hanno permesso agli studiosi di identificare in due particolari periodi la vita nel sito di Castiglione: tra il IX ed il VIII secolo a. C. ad opera di una popolazione autoctona dell’età del ferro e nei secoli IV e III a.C. come città dell’età ellenistica.
Un vivace dibattito accompagna la reale identità della cittadella, erroneamente creduta di epoca romana, successivamente identificata nella IV Sibari, della quale risulta invece più recente di circa un secolo, è stata ritenuta prima Tempsa Jonica, poi Petelea, mentre nel 1973 è stata avanzata l’idea ad oggi più accreditata, che possa essere l’antica città di Kossa. Il piccolo centro del popolo brettio fermo oppositore delle vicine città greche sulla costa, è stato abbandonato sul finire del III secolo a.C., durante la seconda Guerra Punica, verosimilmente per l’alleanza stretta con Annibale.

Trentacinque ettari racchiusi da una imponente cinta muraria con porte di accesso, astutamente costruite e torri a pianta circolare strategicamente collocate lungo il perimetro della cittadella, una strada principale su cui si affacciano edifici pubblici e privati, più avanti, dove la pendenza è più decisa, un teatro, struttura e baluardo della cultura ellenistica. Assolutamente da osservare la posizione della torre nord, verso il mare, dalla quale si può osservare la costa ed il terreno circostante in cui scorre il Coserie. Le mura ad est terminano in due torrioni posti obliquamente tra loro, qui è ubicata la porta principale della cittadella, siffatta per favorire gli abitanti nell’attacco da sopra le mura, nel caso di nemici che volessero accedervi. A sud-est è presente una piccola porta da cui si raggiungono l’agorà e l’acropoli. Fuori delle mura, nella cosiddetta Valle d’Agretto, è possibile vedere una cinquantina di tombe a fossa, delimitate e ricoperte da pietre, risalenti ai primi abitanti, originariamente complete dei corredi funerari, sovrapposte a queste altre tombe dell’insediamento successivo.


La maggior parte dei reperti mobili, ritrovati appunto come dotazione per l’aldilà, sono presenti nelle sale del Museo Nazionale di Reggio Calabria, uno dei più importanti d’Italia in materia archeologica, gli altri possono essere osservati nel locale Museo Archeologico. Gli ornamenti riportati alla luce sono stati realizzati nella Val di Crati e sono per lo più bottoncini, braccialetti, armi, lamine decorative, monete e fibule, proprio la presenza di quest’ultime rende il ritrovamento di Castiglione di Paludi ancor più eccezionale, sottoscrivendola come estremo meridionale nella distribuzione di fibule conosciuta.

Oggi come ieri il fascino incontrastato che le antiche civiltà esercitano sul mondo moderno favorisce l’incontro e l’attenzione verso queste realtà ancora, purtroppo, non note al grande pubblico, ma sempre in procinto di vivere il loro momento di gloria, rievocando le gesta, i piccoli e grandi momenti di una quotidianità tanto diversa quanto simile alla nostra.

lunedì 10 gennaio 2011

La natura come valore

di Bruna Larosa

Un ambiente espositivo caldo e accogliente per la mostra che prende il titolo di Laudi per Frammenti e Colori tenuta a Cosenza. L’autore, noto anche per aver realizzato la Via Crucis artistica di Grimaldi, è il prof. Pino Minìaci che ha voluto raccogliere in questi quadri la sua concezione della Natura Madre spesso bistrattata dall’uomo, quale figlio distratto e assente. Può sembrare una scelta controcorrente quella di non imporre l’uomo come fulcro delle rappresentazioni ma il proporre la natura come soggetto principale risponde perfettamente alla poetica dell’artista spesso dedito a decantare le bellezze dei panorami naturalistici. Le tele sono caratterizzate dalla continua tensione a raggiungere una quarta dimensione, quella che Picasso identifica nel tempo, testimoniata dalla ‘costruzione’ frammentata dell’immagine. Tratti severi e decisi tagliano e scompongono le rappresentazioni e, oltre alle sezioni vi è un particolare utilizzo dei colori; tali espedienti consentono di rivelare all’ammiratore l’immagine solo ad una certa distanza e solo con un’ attenta visione. Il soggetto, cioè la natura riesce a soddisfare così quel suo bisogno di tempo e di spazio. Tra le tele c’è una serigrafia che sintetizza attraverso i suoi colori la realtà naturalistica della nostra Regione, ricca di luci e di sfumature. Si tratta di una natura morta di caravaggesca memoria, titolata ‘I colori della Calabria’ nella quale, in tutta la loro fulgida bontà sono rappresentate pannocchie, peperoni, melanzane, pomodori e altri caratteristici ortaggi, che deliziano le nostre zone. Elementi semplici che però non devono far dimenticare a tutti coloro che vivono questa terra e godono dei suoi frutti di quanto le cose semplici siano in realtà le più desiderabili.
Abbiamo parlato con Pino Minìaci che ci ha offerto uno spaccato della mostra e della realtà attraverso il suo sguardo d’artista.
Minìaci, da cosa trae ispirazione per la sua arte?

Traggo l’ispirazione dalle esperienze della mia vita che mi hanno portato a vivere per lunghi anni fuori dalla Calabria; quando si vive lontano si ha la possibilità di rivalutare tante cose. È soprattutto questo quello che cerco di trasmettere attraverso i miei quadri. La mia ispirazione risiede in tutto ciò che mi circonda, lasciandomi suggestionare fortemente dalle bellezze della natura.

C’è qualche tela che considera maggiormente rappresentativa?

In una, Jolly Rosso, c’è un richiamo all’attualità, avevo sentito la notizia relativa alle navi dei veleni e ne è venuto fuori questo quadro, con una nave rossa che solca il mare. Una commistione quindi tra l’elemento naturale e quello umano/artificiale: l’uomo cammina con l’acceleratore non rendendosi conto che dovrebbe avere più riguardo nei confronti della natura e andare alla sua stessa velocità. Ogni danno fatto alla natura si risolve in un danno per noi stessi, sarebbe opportuno tenerne conto.

Lei sceglie di rappresentare la Natura e dove la figura umana è contestualizzata in un paesaggio, è soggetta a una forte stilizzazione, quale messaggio vuole trasmettere?
La centralità della natura è qualcosa che supera fortemente l’idea che nell’ immaginario collettivo si ha verso la stessa. Io rappresento ciò che c’è di bello e che spesso non viene notato per indifferenza o distrazione. L’uomo è già protagonista della natura, basti pensare, ad esempio, che proveniamo da un elemento naturale, quale l’acqua, così nei quadri che propongo la figura umana diventa astrazione.
Ogni soggetto è suddiviso in ‘sezioni’ da delle rette nere o bianche che lo attraversano, vuole svelarci qualcosa in merito?

Conservo sempre il mio occhio da scultore, tanto che accanto ai pennelli utilizzo come arnesi da lavoro delle spatole per realizzare quelle che sono state definite delle ‘sciabolate’. I tagli mi aiutano a soddisfare la mia volontà di dare una nuova dimensione alla tela, regalando un effetto di ‘tutto tondo’ che chi visiona l’opera altrimenti non riuscirebbe a percepire. Lo stile che ho adottato può sembrare illeggibile, in realtà tento solo di far riappropriare l’arte dello spazio naturale di cui necessita: lo spettatore dovrà, infatti, fermarsi ad osservare la tela e allontanarsi ad una certa distanza donando all’opera tempo e spazio.
Qualche considerazione sul valore dell’arte?
Penso spesso a tutte le cose che si potrebbero realizzare anche dal punto di vista turistico se si avesse una maggior coscienza delle bellezze presenti nelle nostre zone. Manca, purtroppo, una consapevolezza diffusa, tanto che riterrei utile che la storia dell’arte, essendo l’Italia ricca di monumenti ed opere, venisse studiata fin da piccoli per sviluppare quella sensibilità di cui si ha tanto bisogno; le mancanze, infatti, non sono solo della nostra terra. L’ arte potrebbe essere lo strumento per migliorare l’assetto economico non solo della Calabria, ma di tutta l’Italia.


Pubblicato su Mezzoeuro in edicola da sabato 8 gennaio 2011

domenica 9 gennaio 2011

La 'ndrangheta ritornerà più forte di prima


di Bruna Larosa


Solo un incantesimo della Fata Morgana potrebbe forse ricomporre il complicato mosaico di poteri leciti e illeciti che influenzano la vita della popolazione che abita la punta d’Italia. Nella realtà però le favole non esistono e i giorni dei reggini sono costellati di paura, per ciò che potrebbe accadere e la consapevolezza che così non si può continuare. L’insistenza degli ultimi avvertimenti ai danni di coloro che lavorano contro la mafia, e la loro durezza non lasciano indifferente nessuno e l’opinione pubblica calabrese, ma non solo, vuole sia fatta chiarezza ponendo delle domande cui ci si aspettano precise risposte. Il problema delle intimidazioni, tuttavia, non è una novità, sebbene ultimamente si manifesti in maniera più viva e palese, come da alcuni anni non succedeva. La cittadinanza di Reggio Calabria, poi, ne ha una percezione certamente amplificata rispetto a quella che può essere trasmessa mediante le notizie scandite dai media. Se gli avvertimenti mafiosi lasciano tristemente interdetti si rimane assolutamente perplessi davanti a ciò che si è pensato per fronteggiare tale problema: l’invio dell’esercito a presidio delle zone sensibili. La popolazione del reggino si divide davanti a tale possibilità e sebbene il problema sia avvertito considerevolmente da tutti, aleggia per l’area metropolitana una certa diffidenza ed estraneità nei confronti del provvedimento che è stato presentato per limitare e, magari, sconfiggere il problema della criminalità organizzata.


Abbiamo incrociato i cittadini del reggino e della città metropolitana interrompendo anche se solo per un attimo la loro corsa per chiedere di condividere con noi la loro opinione su questo espediente che tanto fa discutere. Molti, invero, preferiscono non pronunciarsi, altri affermano la forza della ‘ndrangheta e l’inutilità di questa soluzione per gestire una situazione tesa e difficile, poi c’è chi invoca più sicurezza e chi è rassegnato alla situazione attuale, ricordando, probabilmente tempi peggiori.


‘Questo provvedimento non serve a nulla, afferma Francesca Cavallo, perché la mafia, di certo, non si farà intimorire dall'esercito. La ‘ndrangheta è sempre esistita ed esisterà sempre: questa è la realtà ed è inutile pensare che l'unione fa la forza o altro perché dobbiamo vedere in faccia la realtà e capire che parliamo di una vera e propria istituzione che non verrà mai a cadere!’. La ‘ndrangheta si presenta, quindi come la Forza per eccellenza, quasi fosse una ‘reale’ istituzione, convinzione che rinsalda le sue stesse basi e idea che purtroppo è ben radicata sul territorio. Anche altre persone si dimostrano dubbiose circa la bontà del provvedimento e propongono soluzioni alternative, ‘Non sono convinto dell'utilità dell’esercito a Reggio, dice Antonio Caristo, quello che è nato lungo anni di indifferenza e accondiscendenza non può essere risolto in pochi giorni con l'arrivo di contingenti militari. Questa decisione, inoltre, comporterà dei costi non indifferenti, soldi che sarebbe più opportuno destinare all'istruzione e ai ricercatori in modo da agevolare la ripresa delle lezioni e cercare di migliorare la situazione di caos in cui verte l’università’. Stefania Lombardo replica alla nostra domanda asserendo che a suo avviso ‘l’eventuale arrivo dell’esercito a Reggio Calabria probabilmente non risolverà niente e servirà solo da propaganda politica. Non è stato neanche specificato per quanto tempo sarà presente, magari per un breve periodo, il tempo necessario perché la piovra torni nella tana per studiare come rafforzarsi! A Reggio non serve l'esercito, ma persone come i magistrati e le forze dell'ordine disposte a lavorare anche sotto copertura per scovare cosa e chi c'è dietro a tutto questo marciume, pur correndo il rischio di smascherare dei corrotti eccellenti, siano magistrati, politici, o agenti. Una misura necessaria, continua la ragazza, sarebbe quella di rafforzare il sistema di sicurezza dei magistrati che lottano contro le ‘ndrine. È un dato di fatto che la loro sicurezza sia precaria, sarebbero anche da aumentare gli stipendi di queste persone che ogni giorno, per amore verso lo Stato, mettono in pericolo la propria vita. Inoltre è vero che le intimidazioni sono fatte a Reggio Calabria, ma la situazione non è certo più mite in altre zone della regione, penso subito alla Locride, a questo punto perché inviare l’esercito solo nella città? Insomma credo sia riduttivo che il governo pensi sia sufficiente l'esercito a sconfiggere la mafia, dovrebbe, invece, concentrarsi su forze di sicurezza da gestire in maniera intelligente’. Giuseppe Falleti ascolta interessato la nostra domanda e poi si unisce al coro di coloro che ritengono tale provvedimento inutile, anzi, forse addirittura controproducente: ‘Credo che l'invio dell'esercito potrà servire solo e semplicemente a inasprire la situazione già tesa e difficile. La ‘ndrangheta è caratterizzata da vincoli familiari che legano le diverse famiglie per questo motivo è difficile che i nodi saltino: oltre ad un legame di interessi è vivo il legame di sangue. È vero che le famiglie possono avere degli screzi, ma è anche vero che potranno organizzarsi tra loro con una certa facilità e fare scudo unite contro lo Stato’. Incrociamo anche Chiara Placanica che, al contrario degli altri, si rivela favorevole al provvedimento che viene proposto. Convinta ci risponde che ‘ritengo che sia necessario l’invio dell’esercito a Reggio Calabria così si ha la possibilità di controllare più attentamente io territorio, specialmente i posti dove risiedono gli uffici giudiziari e in particolar modo l’area in cui hanno sede gli spazi della procura. Indubbiamente è un modo per scoraggiare o quanto meno provare a contenere le azioni intimidatorie nei confronti dei magistrati’.

Uniti contro la ‘ndrangheta, i reggini continuano le loro giornate fatte di piccole sfide quotidiane, divisi tra le bellezze della loro città e ciò che solo alcune persone tramano nell’ombra.


Pubblicato sul n. 41 di MezzoEuro in edicola dal 16 ottobre 2010

venerdì 7 gennaio 2011

Bellezze da gustare

di Bruna Larosa


Nel Parco del Pollino, tra natura, paesaggi e cultura si fa spazio anche un progetto di agricoltura ecocompatibile a sostegno del territorio


Il fiume Lao scorre frizzante e cristallino mentre il profumo intenso del sottobosco e i giochi di luce ed ombra tra gli aghi di pino offrono scenari quasi fiabeschi. Il Parco Nazionale del Pollino racchiude uno dei territori più suggestivi ed interessanti d’Italia, tanto da attirare ormai da ogni parte un turismo consapevole e attento allo spettacolo della natura. È interessante sapere, però, che nel rispetto del patrimonio naturale, è possibile creare e sperimentare anche modelli di sviluppo eco-compatibili del territorio.


È Luigi Gallo, del Centro di Divulgazione Agricola n. 2 dell’Arssa (Agenzia Regionale per lo Sviluppo e per i Servizi in Agricoltura) di Castrovillari, che ci illustra in dettaglio le possibilità offerte dalle nuove frontiere produttive in un ambiente praticamente incontaminato. Da circa venti anni – ci informa Gallo - l’Agenzia ha investito sul territorio con i servizi di assistenza tecnica e divulgazione agricola, al fine di accostare alle colture tradizionali della zona del Parco, per lo più in asciutto, delle nuove coltivazioni irrigue, utilizzando il completamento degli impianti per l’irrigazione, realizzati dal Consorzio di bonifica integrale dei Bacini Settentrionali del Cosentino.

Attualmente, l’area di nuova irrigazione, ricadente nei comuni di Mormanno, Laino Castello e Laino Borgo, raggiunge un’estensione di circa duemila ettari mentre il sistema dell’irrigazione a goccia consente un utilizzo davvero razionale dell’acqua irrigua. È da questo progetto che nascono le coltivazioni di fagiolo borlotto ceroso nano, fagiolo borlotto ceroso rampicante, fagiolo bianco ceroso rampicante, oltre a quelle di zucchino, pomodoro, ed al prezioso recupero di due colture, prima a rischio di estinzione: il fagiolo poverello bianco e la lenticchia di Mormanno. Questi tipi di colture ben si armonizzano con le nuove, particolari esigenze dei consumatori, oggi sempre più attenti ad acquistare prodotti che non abbiano subìto dei trattamenti che possono alterarne le qualità. In effetti, le caratteristiche di questi cibi incontrano il desiderio di nutrirsi in maniera sana e naturale in quanto la loro produzione, all’interno di un’area protett, fa sì che siano genuini, poiché prodotti con il minimo o in totale assenza di prodotti chimici di sintesi, e gustosi, senza trascurare l’enfasi di provare il sapore delle bellezze del Parco! La distribuzione di tali prodotti -continua Gallo - avviene su scala locale, all’interno del Parco stesso, nel resto della regione, soprattutto nelle località balneari più vicine al territorio del Pollino e in alcune zone della Campania.


Molto interessanti, poi, le prospettive occupazionali, anche per i giovani; la coltivazione di questi ortaggi è estremamente semplice e non supera, per durata, i cinque mesi all’anno, rivelandosi una ghiotta occasione di integrazione del reddito. Se dal punto di vista sociale, l’iniziale sensibilizzazione ha portato alla nascita di alcune cooperative locali, è dal punto di vista economico che si rivela il potere e la lungimiranza del progetto. La redditività è davvero alta, perché in molti casi è lo stesso coltivatore che espleta da sé l’intero ciclo produttivo; ciò unito al basso investimento iniziale, rende i guadagni davvero soddisfacenti. Dal confronto tra questo piccolo sistema economico con quello della vicina Piana di Sibari si può evidenziare come, alcune tra le colture più diffuse della Sibaritide, cioè pesche e clementine, permettano un guadagno di circa 3000 euro/ha, mentre l’orticoltura tipica del Pollino dai 5000 ai 10000 euro/ha, delineando ancor di più l’opportunità che il Parco è in grado di offrire. Scopriamo così che accanto alle belle leggende che da sempre accompagnano l’uomo e i boschi, popolate da eroi, briganti, folletti e magie si apre lo spiraglio anche per una positiva realtà, tutta da conoscere e toccare con mano.


Pubblicato sulla rivista Klichè n° 29

martedì 4 gennaio 2011

Le donne nell'arte.

Pennelli d'autore

di Bruna Larosa


Tutto ciò che riguarda la cultura e l’arte in Calabria ha purtroppo il sapore della rarità e dell’eccezione. Sempre protratti alla ricorsa delle grandi opere, le stesse che nella maggior parte dei casi si risolvono in ‘semplici’ cattedrali nel deserto, non si è soliti concentrare l’attenzione alla valorizzazione degli aspetti culturali presenti. Così mentre siamo tutti consapevoli del fatto che non solo la nostra terra sia custode di immani bellezze naturalistiche e di risorse archeologiche non ben valorizzate, ne’ custodite, allo stesso tempo siamo impassibili testimoni di giovani talenti dell’arte che spesso devono spostarsi altrove per dar sfogo al loro talento. Una sfaccettatura della fuga dei cervelli, questa, spesso messa in ombra da altri aspetti considerati dai più maggiormente competitivi nel mondo del lavoro e dello sviluppo. In ogni caso si tratta di una perdita per la nostra regione che arranca dietro le altre scopiazzando dei modelli che mal di confanno al suo spirito, piuttosto di creare un’identità propria fatta con le sue bellezze e i propri talenti. Non può esserci sviluppo senza ricerca e senza cultura, una regione che vuole risollevarsi dallo stato di inferiorità in cui è stata calata non può prescindere da tali particolari, spesso troppo dimenticati e svalutati. Alla luce di tutto ciò viene da chiedersi se è possibile dar sfogo al potere creativo e cosa si deve essere spinti e disposti realmente a fare per potersi esprimere.



Abbiamo parlato di questo con un giovane artista contemporaneo, Pasquale De Sensi, lametino d’origine ed esatto modello dell’artista eclettico e appassionato. A soli ventisei anni ha partecipato alla Biennale Internazionale d’Arte Contemporanea svoltasi a Roma e grazie alle sue opere ha avuto una segnalazione al Premio Celeste 2010 nella Sezione Grafica, oltre ad essere stato presente in numerose esposizioni sia collettive che personali sparse per tutta l’Italia.


De Sensi, ad oggi lei è un interessante personaggio nel panorama dell’arte contemporanea, che tipo di studi ha seguito per migliorare e maturare questa sua propensione?

Ho frequentato diverse Accademie di Belle Arti; a Roma, a Reggio Calabria, a Perugia, a Urbino, ma contemporaneamente ho sempre seguito un mio percorso di studi autonomo. Penso infatti che l'arte non si impari da altri e non si possa insegnare a nessuno. E’ un vero e proprio mestiere che richiede impegno e costanza ed il lavoro, per non diventare un sacrificio e quindi un danno, deve necessariamente corrispondere a una passione, a una inclinazione spontanea.


Da cosa trae ispirazione e quale messaggio intende lanciare con la sua arte?

L’ispirazione proviene soprattutto dalla musica che ascolto e dai libri. Ogni immagine che propongo è un pensiero diverso; mi interessa sopratutto creare dei contrasti e delle analogie visive abbastanza forti da suscitare nell'osservatore una ricerca di senso. Non traggo molti spunti dalla realtà di tutti i giorni che al massimo mi limito a fotografare ed usare come base. Senza il bisogno autentico e intimamente indispensabile di comunicare il proprio immaginario, l'artista rischia di diventare una specie di uomo di spettacolo, che lavora solo per il successo personale. Credo che per non cadere in questo genere di aberrazioni non si debba mai perdere il contatto con le proprie origini e la propria formazione intellettuale.


Calabrese d’origine ma continuamente in viaggio, è un desiderio o una necessità dettata, magari, dallo stato dell’arte nella nostra regione?

Le tematiche e i linguaggi con cui si confronta chi lavora nell'ambito dell'arte contemporanea possono essere definiti globali poiché non appartengono a questa o a quella regione; è per questo necessaria una apertura verso l'esterno. Ho vissuto per due anni a Reggio Calabria, una città con un clima e un paesaggio invidiabili, eppure, appena possibile, il desiderio di vedere cose diverse mi porta a spostarmi e a viaggiare molto.


Qual è, dunque, il suo punto di vista sullo stato dell’arte in Italia e in Calabria più in particolare?

Ad oggi in Italia le discipline che riguardano la cultura umanistica vengono difficilmente riconosciute e ripagate dalla società; succede con le arti figurative, come per la musica e per il teatro. Per quanto riguarda l’arte contemporanea in sé, il problema in Calabria è principalmente di tipo politico. La Calabria è oggettivamente fra le regioni più chiuse e retrograde rispetto alla scena contemporanea nazionale. A parte Cosenza, Catanzaro con il Marca e il parco della Roccelletta di Borgia, la Calabria rimane una regione dove i progetti più ambiziosi vengono lasciati sfumare e si consumano in beghe amministrative e polemiche. Penso, ad esempio, al caso di Lamezia Terme, dove da anni si parla di realizzare un museo del contemporaneo intestato a Luigi Di Sarro: di fatto il progetto è fermo e diventa di anno in anno più modesto. La classe politica spesso non comprende che non può esserci sviluppo reale senza cultura.




Pubblicato sul n.° 46 di Mezzoeuro in edicola da sabato 20/11/2010.

domenica 2 gennaio 2011

C'è chi resta e chi va via

di Bruna Larosa


Laurea in tasca e valigia in mano, questa la fotografia che scatta l’agenzia Svimez riguardo i giovani del Meridione: sono moltissimi e per lo più laureati, quelli che si spostano dalla loro terra per cercare fortuna altrove. Il lavoro al Sud è una sorta di Sacro Graal, e paradossalmente la ricerca risulta molto più problematica per i ‘dottori’. Molti partono armati di buona volontà, altri restano, ma qual è il futuro che si prospetta per chi ha la tenacia di partire e per chi ha la forza di rimanere?


I laureati che partono, informa sempre lo Svimez, approdano nelle regioni del Centro Nord e sono generalmente giovani uomini. Vanno per lo più incontro ad uno stipendio migliore, ma, al tempo stesso, a contratti meno stabili nel breve periodo rispetto al Sud. Nel lungo periodo lo stipendio aumenta ulteriormente e anche la posizione lavorativa migliora, stabilizzandosi. Viceversa chi resta è prevalentemente donna, rimarrà più tempo disoccupato, avrà un contratto più sicuro, ma uno stipendio di gran lunga più basso anche nel lungo periodo.


Dalla statistica alla realtà: abbiamo parlato con due figlie di Calabria, giovani, laureate e donne. Valentina e Francesca hanno la stessa età, lo stesso livello di istruzione, dopo la laurea entrambe hanno cercato fortuna nella loro regione, poi, una ha scelto di partire, l’altra di rimanere. Mentre la prima ci racconta di aver provato ad inserirsi nel mondo del lavoro in Calabria, ma di non aver trovato soddisfazione così da andar via, la seconda parla di un’esperienza di lotta che continua ancora oggi. Bisogna essere più che migliori, bisogna vivere ai limiti dell’insistenza per farsi notare. Entrambe si sono scontrate con una realtà oltre che difficile, ostile: spesso non sono i migliori ad andare avanti, ma chi ha dalla sua le conoscenze giuste.


Valentina dopo dei contratti a progetto ha cominciato a inviare i CV fuori dai confini regionali, ha preparato la valigia ed oggi lavora con un contratto stabile nei pressi di Imola. ‘La Calabria è nel mio cuore, afferma, ma la realizzazione personale non può essere sottovalutata dopo aver tanto studiato!’. Francesca, invece, è ancora in bilico: un progetto di qua, un contratto di là, molta amarezza. ‘Vorrei fare tanto, ma non ho la possibilità di far nulla, mi impongo per quello che posso. Nonostante il tempo che passa non ho paura di fare la gavetta, solo non sono disposta a fare la fila ai call-center per potermi mantenere, quando in realtà tra un progetto e un’idea lavoro davvero e duramente per far fruttare la mia laurea!’.


Due ragazze in gamba ma la loro storia fa sollevare un legittimo dubbio: che le Università del Meridione servano semplicemente ad accrescere il prestigio proprio e delle città in cui sorgono e poi costringano, nei fatti, i laureati a fare le valigie e andare lontano? Sul territorio calabrese esistono ben tre Università nonostante questa regione non riesca ad assorbire il numero di laureati che ‘produce’! Ciò provoca una netta perdita economica per questa terra, che prima forma i suoi figli, investe nella loro formazione, ma non offrendo possibilità lavorative li cede a costo zero ad altre zone del Paese. In termini economici si tratta di un continuo investimento a perdere! Avviene anche un danno di tipo diverso: la creatività, la volontà di fare, la voglia di emergere e migliorare tipica dei giovani sono le preziose caratteristiche che potrebbero fare grandi il Sud e la Calabria. Il condizionale è d’obbligo: ‘potrebbero’ fare grande la Calabria, infatti, queste ricchezze incommensurabili si è costretti a impiegarle altrove per riuscire a realizzarsi nel lavoro e creare un progetto di vita che superi la durata di un contratto co.co.pro. .

Pubblicato su MezzoEuro n. 28